09 – 11 ottobre 1997 -Didattica e Informatica Dal 9 all’11 ottobre 1997 si svolge il Simposio “Didattica e Informatica” organizzato dall’Accademia Navale di Livorno.
Pensare la formazione dentro la multimedialità
di Roberto Maragliano
Università Roma Tre Intervento al Simposio “Didattica e Informatica”
9 – 11 ottobre 1997, Accademia Navale di Livorno
Sommario
Il presente intervento considera la multimedialità più come risorsa epistemologica che come parco strumenti. L’invito che ne viene è di cogliere nelle logiche di funzionamento delle macchine l’emergere di forme di pensiero e di coscienza assai diverse di quelle ereditate dalle forme di dominio e di esclusività proprie della scrittura a stampa. Si tratta dunque di avviare un ripensamento complessivo degli oggetti, dei soggetti e dei linguaggi della formazione.
- Non è solo una questione di macchine
Tra le molte risorse che la multimedialità mette a disposizione di chi si occupa di problemi formativi ce n’è una il cui impiego, particolarmente impegnativo, corrisponde a ciò che ho provato a sintetizzare nel titolo di questo mio intervento: si tratta di vederla non tanto come parco strumenti né come un’area di contenuto caratterizzata dalla presenza di sofisticate procedure tecnico-scientifiche, ma come chiave filosofica generale per fare i conti con la configurazione in perenne movimento del problema generale della formazione.
L’approccio che qui propongo non è intuitivo, come quelli oggi in circolazione in ordine ai (presunti) pregi e difetti pedagogici delle macchine, ma si lega uno sforzo preliminare di problematizzazione.
Va dunque contro uno dei capisaldi del buon senso educativo: quello che muove dal presupposto di dover portare ordine (l’ordine dell’insegnamento formale) dentro un campo (le culture informali) caratterizzato da opacità, ambiguità, confusione, segnato insomma dalle logiche del disordine, e che, di conseguenza, assume le strumentazioni didattiche come risorse materiali per questa azione di pulizia.
Non basta.
E’ necessario, per capirne i complessi risvolti concettuali, operare una scelta in ordine ai modi di affrontare un problema filosofico, nella fattispecie il problema di individuare un ruolo per la formazione all’interno della cosiddetta società della conoscenza.
Il modo più diffuso, a questo proposito, vede nel problema un enigma che è possibile sciogliere adottando opportune strategie di soluzione, o meglio scegliendo, tra le molte strategie disponibili e in un qualche modo convalidate, quella che più si adegua alla natura del problema preso in considerazione. I presupposti operativi di questo modo di agire, che non è quello che qui propongo, stanno nella definibilità piena del problema, cioè nella possibilità di specificarlo, evitando di con-fonderlo con altri, e nella oggettività degli strumenti concettuali e materiali adottabili in vista di una sua soluzione. Per quanto riguarda il tema che sto qui affrontando, da una parte sarebbe in atto una crisi di efficienza della didattica, e dall’altra emergerebbero le soluzioni che le macchine della conoscenza, in quanto tali, offrono in vista dello scioglimento dell’enigma del buon insegnamento.
L’altro approccio, del tutto diverso, intende ragionare attorno alle condizioni e ai contesti che hanno fatto nascere il problema con il quale ci si misura. Mette in gioco tutto, non solo gli strumenti di soluzione ma anche quelli di definizione del problema stesso. In relazione al nostro tema, preliminarmente emergerebbe l’esigenza di contestualizzare, cioè storicizzare la crisi in atto delle forme dell’insegnamento e, assieme ad essa, prenderebbe corpo la possibilità di cogliere nelle tecnologie non tanto una via di soluzione quanto un fattore di generazione e di condizionamento del problema stesso; poi, ci si troverebbe di fronte al compito di dar vita ad un nuovo organismo filosofico, costituito da più oggetti virtuali (la conoscenza come elemento propulsivo delle dinamiche sociali, l’intelligenza collettiva che fa da connettore delle comunità e delle istituzioni culturali, il ruolo che in questa intelligenza collettiva gioca l’azione dell’individuo, la possibilità di intendere la formazione come ambito protetto entro il quale esercitare il gioco della conoscenza).
- Il modello strumentale
Vediamo allora di metterci d’accordo.
C’è un nodo, quello del rapporto fra didattica e nuove tecnologie. E’ il tema del simposio, se capisco bene (detto fra parentesi, preferisco la dizione “nuove tecnologie” a quella adottata dai responsabili dell’incontro, “informatica”, proprio perché più aperta, forse più ambigua, ma certamente più ricca di implicazioni filosofiche).
In base al primo modo di affrontare le cose (modo che io non contesto, anzi riconosco come pienamente legittimo: soltanto lo considero limitato e limitante nel suo raggio d’azione; insomma, lo vedo poco filosofico) si tratta di valutare attentamente le opportunità che le macchine odierne della conoscenza offrono a chi organizza e gestisce attività d’insegnamento, ed anche di considerarne i limiti, se non altro in rapporto alle macchine tradizionali (il libro, in primo luogo, che sarebbe opportuno intendere come macchina conoscitiva).
C’è materia sufficiente per imbastire complessi discorsi e organizzare altrettanto complesse attività, chiamando a raccolta le competenze degli esperti in questioni pedagogiche e degli specialisti delle discipline, da un lato, degli informatici e dei massmediologi dall’altro. E c’è ben chiara, fin dall’inizio, l’indicazione della via da seguire: quella che porta ad individuare le soluzioni capaci di assicurare la massima valorizzazione delle caratteristiche tecniche e materiali delle nuove strumentazioni.
Dato dunque un problema specifico d’insegnamento, relativo mettiamo ad un’area della geografia, ci si impegnerà ad ipotizzare un uso del computer che renda il più possibile efficace, solido, diffuso quel compito d’insegnamento, e si investirà sulla preparazione tecnologica del docente di geografia.
Ecco allora che viene naturale adottare la macchina per quello che i più pensano che essa sia: un mero strumento, un veicolo neutro per la conoscenza, per certi aspetti più vantaggioso di altri, perché, essi sostengono, più veloce, economico, mobile, ma per altri aspetti meno vantaggioso, perché, ritengono, troppo impersonale, artificiale, insomma “macchinoso”.
Non ci si chiede nulla, o quasi nulla, dentro a questo modo di agire, sulla natura epistemica dell’oggetto da insegnare: una determinata porzione della geografia viene assunta come variabile assegnata.
Soltanto, registrati i limiti delle strumentazioni fin qui usate (il libro, essenzialmente, ma anche l’esposizione dell’insegnante, l’esercitazione su carta, la verifica orale o scritta), ci si domanda se trasferendo i contenuti di quella porzione d’insegnamento dentro l’ambiente computer (variabile indipendente) ed utilizzando questo ambiente al meglio non si ottengano risultati migliori e più duraturi in termini di apprendimento (variabile dipendente).
Naturalmente, perché tutto ciò possa realizzarsi bisognerà disporre di una grammatica d’uso della macchina. Di qui la centralità che generalmente assume, dentro un tal modo di ragionare e di agire, il tema dell’alfabetizzazione informatica degli insegnanti: il nostro ipotetico docente di geografia, senza con ciò intaccare o pregiudicare la sua competenza disciplinare (maturata ovviamente in altri contesti), impara come funziona e come egli può far funzionare un computer; poi, in vista dell’attività didattica, va alla ricerca di applicazioni che siano coerenti con i contenuti e gli scopi del suo insegnamento (un cd-rom, un ipertesto, un multimediale per quell’area della geografia).
- Il modello filosofico
L’altro approccio scava più a fondo e assume la tecnologia cognitiva non già come soluzione ma come fattore di determinazione della crisi della didattica; pone interrogativi sulla didattica stessa, domandandosi se il suo modo di affrontare i problemi sia del tutto coerente con il nuovo scenario culturale; e mette in discussione gli stessi saperi che fungono da contenuto della formazione, confrontando la configurazione astratta che le dinamiche della conoscenza tradizionalmente assumono all’interno dell’insegnamento accademico con la varietà e la complessità delle forme concrete, verrebbe da dire “mondane”, che le dinamiche cognitive sviluppano al di fuori delle istituzioni scolastiche, soprattutto nello spazio dei media.
Al nostro docente di geografia, proiettato su problemi di così grossa portata, verrà a mancare il terreno di sotto i piedi: inevitabilmente si porrà domande sulla natura attuale del sapere geografico, non solo quello ufficiale degli scienziati ma anche quello praticato dalla gran massa degli abitanti dell’universo dei media, ed altre domande ancora sull’opportunità di aprire una dialettica tra queste due forme di conoscenza geografica (la prima tipica di un soggetto stanziale, la seconda tipica di un nomade; nessuna delle due “completa” e totalmente autonoma).
Per una parte, insomma, dovrà misurarsi con grossi epistemologici, aprendo discorsi fin qui considerati sicuri e solidi. Per un’altra parte, il terreno gli franerà anche sul versante pedagogico.
“So bene cosa significa insegnare a chi (presumo) non sa: ma cosa mai significa – non potrà non chiedersi – insegnare a chi (constato che) sa? cosa significa non trasmettere ma intermediare, non dare ma scambiare, non istruire ma costruire?”
E poi, la tecnologia.
Se la trova all’inizio del ragionamento. Essa dà forma al sapere condiviso e diffuso del mondo, ed è una forma assai diversa da quella tradizionale dell’accademia, caratterizzata questa da chiusura, oggettivazione, scomponibilità, analiticità, formalizzazione; quella del mondo, invece, è una forma fluida, mobile, reticolare, aperta, sempre ricomponibile e disponibile nei confronti di infinite associazioni.
“E’ mai possibile preservare il territorio dell’insegnamento da questa forma? Sì, in teoria (e fin qui lo si è fatto anche in pratica): ma – si dovrà chiedere il nostro docente – a quale prezzo?”
Dunque, la tecnologia incide sulla natura stessa del problema, essendone più che la soluzione materiale il contesto di definizione. Ma ne fornirà anche la chiave d’interpretazione, e quindi di sviluppo, fino a diventare essa stessa un oggetto problematico.
Ecco allora che la competenza tecnologica del nostro docente non potrà essere soltanto di tipo grammaticale, ma dovrà essere anche di tipo dialettico e retorico. Dovrà diventare naturale, per lui, ragionare, riflettere e riflettersi, scambiare e scambiarsi con le macchine. Mai, per intenderci, potrà essere un utente professionale di computer se non ne sarà anche utente mondano, e se non adotterà la macchina come strumento filosofico, quindi come risorsa per ripensare il mondo, il suo muoversi dentro di esso e il suo progettare, pattuire, costruire insegnamento in forma collaborativa.
Quella che qui propongo è dunque una pedagogia esigente dei media, che scaturisce dalla scelta di usare la macchina per un ripensamento complessivo della formazione.
- Oggetti, soggetti e linguaggi
Un approccio come quello che propongo qui trae alimento dalla scelta di accettare la mobilità (dei modi e dei prodotti del conoscere, delle pratiche culturali nonché dei contesti istituzionali e delle risorse strumentali che qualificano tali pratiche) non come eccezione ma come condizione naturale della “vita del sapere”, come sua forma costitutiva e perennemente costituentesi: ovviamente anche del sapere che funge da oggetto della formazione.
Il primo passo da fare va allora nella messa in discussione dell’abitudine a concepire l’insegnamento come zona franca, sottratta al rumore e ai movimenti della storia e del mondo. E, ovviamente, questo modo di pensare e di agire non riguarderà solo i progetti formativi, ma si inscrive dentro un sistema di interrogazione-interpretazione aperta di quelli che ho chiamato i rumori e i movimenti del mondo.
Stiamo di fatto passando da un regime all’interno del quale l’attività formativa (e più in generale la ricerca culturale a servizio dell’insegnamento) equivaleva alla configurazione e alla conseguente messa in azione di saperi stabili, destinati a costituire lo sfondo immobile per le future attività lavorative dell’individuo destinatario di tale azione, ad un regime dentro il quale la conoscenza e le dinamiche che le sono proprie assumono un ruolo di primissimo piano in tutte le attività dell’individuo, presenti e future, produttive e no. E’ anche per questa ragione che ci si trova a far riferimento a saperi mobili, in costante trasformazione, e si assiste al venir meno della possibilità di rappresentarseli come “configurazioni”: la stessa metafora della “figura” risulta impraticabile, se si vuol dar conto di un sapere in movimento, e meglio sarebbe adottare quella del “campo di forze” o addirittura una che lo avvicini ai dispositivi di un “organismo vivente”.
C’è un prima e un dopo, riguardo questa tematica.
Prima la funzione del sapere era di assicurare la stabilità dell’edificio culturale dell’individuo. Ora la sua funzione è di rendere l’individuo sensibile ad ogni forma di trasformazione. Se prima, per impossessarsi delle conoscenze, egli doveva contemplarle e poi riprodurle nella sua tipografia mentale, oggi, per farle sue, deve imparare a intenderle e praticarle come operazioni, all’interno del suo computer mentale.
Questo “dopo” è già in atto nei comportamenti culturali di molti, ma gli manca ancora una piena legittimazione epistemologica. Noi tutti agiamo in un modo, ma il più delle volte pensiamo in un altro. Ecco perché, improvvisamente, tante aree della nostra esperienza ci sono diventate opache: la politica, ovviamente, ma anche l’etica, per non dire di cose apparentemente più vicine, come le pratiche affettive e quelle relazionali, ma anche le pratiche del consumo di merci. Occorre dunque un quadro di consapevolezza e di interpretazione che sia all’altezza di questi nuovi comportamenti. E la formazione può agire come terreno di frontiera, come avamposto epistemologico per un siffatto impegno teoretico, sempre che si sappia vedere nell’azione dei media e dalle tecnologie (che tanta parte hanno nell’affermarsi di tali pratiche) non già un’aberrazione bensì la costituzione di un intreccio di ambiti (o di oggetti) virtuali che già stiamo abitando, e la cui interpretazione postula quello sforzo di ulteriore attivazione e di serena discussione che solo la messa in campo degli strumenti di una nuova coscienza è in grado di garantire. Detto in modo più brutale: non possiamo dar conto del Novecento con l’epistemologia dell’Ottocento. E ancora: i media attivano e allo stesso tempo postulano epistemologie diverse da quelle ereditate dal secolo scorso.
E’ dunque necessario, a questo proposito, fare i conti con la tendenza a interpretare i prodotti del sapere come “cose” dotate di fisicità e pertanto analizzabili, scomponibili, riducibili e regole impersonali. Questa filosofia, che potremmo chiamare “classica”, è coerente con l’equiparazione tra sapere e scrittura, tra cultura e libro. Niente di male, nel fatto che questa equiparazione ancora circoli. Il problema sta piuttosto nel fatto che le dinamiche del mondo, della conoscenza, dello scambio comunicativo tra gli esseri umani di questo secolo ha mostrato i limiti di un tale assunto. Tanto sapere, tanta conoscenza, tanta esperienza passa oggi per vie diverse da quelle assicurate dalla circolazione della scrittura e si deposita dentro ciascuno di noi in base a meccanismi assai diversi da quelli classici del “trasferimento di scrittura”. Il che equivale a riconoscere che i media pensano comunque dentro di noi, e ci orientano ad agire in modi differenti da quelli previsti e grammaticalizzati dalla razionalità scritturale: sono i modi della reticolarità, del connessionismo, del costruzionismo, sono le forme proprie di una conoscenza intesa come immersione, condivisione, scambio, interazione Quando parlavo di una “nuova coscienza” intendevo riferirmi a questi attrezzi teorici.
Non è più possibile, dicevo, configurare il sapere come un testo, o “cosa”. Esso si presenta, fuori e dentro di noi, sempre meno come una struttura “data” di elementi fissi, e sempre più come uno spazio a n dimensioni, un conglomerato fluido che opera come “agente di intermediazione” tra individui ad un tempo eguali e diversi. La conoscenza, allo stato attuale, vive di questa diversità e nello stesso tempo di questa unitarietà, vive delle logiche del patto e della convenzione, si accresce per effetto delle dinamiche dello scambio. Più che una cosa fisica agisce come un “oggetto simbolico”, un intermediario di regole, concetti, pratiche, linguaggi che a sua volta genera regole, concetti, pratiche, linguaggi.
Possiamo dunque parlare ancora di geografia come disciplina a se stante o non dobbiamo imparare a concepirla, assieme agli altri oggetti, come “gioco”, zona conoscitiva aperta, ambiente entro il quale si confrontano e si integrano, secondo andamenti sempre nuovi e quindi non prevedibili, il sapere formale dello specialista accademico con quello empirico del cittadino del mondo (e del mondo dei media)? E’ possibile garantire la diffusione del sapere geografico, dentro le istituzioni formative, facendo leva soltanto sui meccanismi della grammaticalizzazione delle conoscenze territoriali definiti dagli specialisti del settore, o invece non si dovrà lavorare a costituire un campo più ampio e aperto dentro il quale sia possibile mescolare e intrecciare le forme astratte con quelle concrete dell’intelligenza della terra, dove dunque una grammatica, pur sempre provvisoria, sia portata a misurarsi con una o più retoriche, con una o più dialettiche?
L’esigenza di dar conto di conoscenze sempre più plurali, fluide, deterritorializzate rispetto alla tradizionale rappresentazione di ciascun sapere come area unitaria, fortemente strutturata e centralizzata (come un territorio fisico, appunto), trova un ulteriore elemento di giustificazione nella presa di coscienza di quanto le discipline direttamente coinvolte sui temi della coscienza (psicologia, psichiatria, psicoanalisi) siano andate, negli ultimi tempi, prendendo le distanze da un’idea del sé come struttura univoca e centralizzata; di come, insomma, si sia affermata, sulle ceneri di un concetto unidimensionale di identità, un’idea di soggetto plurale, dentro al quale albergano personalità plurime.
Sull’affermarsi di questo fenomeno (che non coinvolge solo la ricerca scientifica ma anche la sfera dei comportamenti e degli scambi quotidiani) i media svolgono un ruolo determinante, non come fattore causale ma come agente di condizionamento: sarebbe riduttivo, infatti, sostenere che la moltiplicazione degli spazi discorsivi (ma anche percettivi, descrittivi, argomentativi) attivata dalle tecnologie abbia prodotto la rottura di quello schema unitario che tradizionalmente assicurava la circolazione e l’uso dell’idea di personalità, mentre è più opportuno cogliere nell’azione delle macchine la costituzione di una serie di possibilità, all’interno delle quali diventa legittima una visione aperta dello spazio psichico individuale.
Per dar corpo a questa possibilità è però necessario mettere in discussione uno schema tanto diffuso quanto fuorviante, sia nella comunità scientifica sia a livello di senso comune: quello relativo agli “effetti dei media sugli individui”. Sarebbe più opportuno, dentro i nuovi orizzonti epistemologici, misurarsi con gli effetti che gli individui producono sulla circolazione dei media, e quindi con quelle zone delle personalità individuali che i media classici di tipo testuale (in primo luogo la stampa), con la loro vocazione alla chiusura, inevitabilmente sacrificavano e delle quali, invece, i nuovi media fluidi e reticolari fungono da specchio, generazione, realizzazione.
Il grosso incremento dei processi di simbolizzazione, problematizzazione, virtualizzazione attivato dai media rende urgente un compito (che non può essere affidato solo agli “specialisti dell’anima”) di ripensamento del sé. Si tratta di star dentro questo fenomeno, e di assumerlo come sfida ad un tempo per l’epistemologia e per il comportamento e il vissuto. Chi pratica il cyberspazio trova naturali le dimensioni del mascheramento, della teatralizzazione di parti instabili del sé, della simulazione, della moltiplicazione delle identità, dell’integrazione tra umano e tecnologico. Chi se ne tiene fuori considera aberranti i comportamenti coerenti con questi nuovi contesti, ma così facendo si pone al di fuori di un terreno che prima che dai media è stato sondato e abbozzato dallo sviluppo delle arti visive, musicali e letterarie del nostro secolo, ma anche da quegli indirizzi della ricerca scientifica e filosofica che si sono misurati con la cosiddetta “crisi dei fondamenti”.
Una riflessione, più spregiudicata di quelle correnti, sul portato innovativo dei linguaggi multimediali può dare un contributo fattivo ad un impegno di ripensamento delle funzioni formative che tenga conto del quadro di riferimenti teorici delineato in questa sede. Il pericolo più grosso che si corre, nel misurarsi con il portato conoscitivo ed esperienziale dei media del presente, è di farlo agire e interpretarlo secondo schemi che, assunti come incontrovertibili, sono di fatto coerenti con il regime semiotico garantito dalla centralità (meglio dall’esclusività) del medium stampa. Una semplice considerazione empirica ci permette di cogliere nell’azione dei linguaggi multimediali l’intreccio tra componenti: quella analitica e oggettivante della stampa, la componente immersiva e sensualizzante dell’audiovisivo, quella interattiva e operativizzante del videogioco. Nessuna delle tre ha un ruolo predominante sulle altre: non ce l’ha sul piano fattuale e tantomeno su quello della riflessione.
Quest’ultimo aspetto segna la rottura più grossa rispetto al passato: non è più la scrittura, da sola, che garantisce e quindi governa il territorio della metacognizione, come è stato fin qui; altre prospettive vanno via via affermandosi, come quella di una metacognizione di tipo immersivo e reticolare, dove più che andare a fondo delle cose si lavora a collegare e integrare degli oggetti, o quella di una metacognizione di tipo pragmatico, all’interno della quale la possibilità di manipolare non solo segni di scrittura ma anche dati sonori e visivi consente di sfuggire alle insidie di una rappresentazione esclusivamente verbale e scritturale dei dati dell’esperienza. In questo senso, il multimediale offre a chi si occupa di formazione più che un repertorio di soluzioni materiali a problemi già definiti, la sollecitazione a proiettarsi su nuovi orizzonti problematici e ad adottare nuovi schemi interpretativi.
- Per chiudere (ed eventualmente per riaprire)
“In ordine all’organizzazione dei contenuti della formazione scolastica, si apre [una dialettica] tra un’impostazione curricolare, affidata alla solidità dei quadri disciplinari di base (gli elementi istituzionali delle materie d’insegnamento), e una visione di tipo ‘reticolare’, orientata ad individuare criteri più mobili di aggregazione delle future conoscenze e competenze dei giovani.”
“La scuola è l’unica sede in cui si presentano in forma ordinata e relativamente completa le ‘istituzioni’ dei vari saperi, diversamente da quanto accade per le informazioni più o meno occasionali e scoordinate che vengono fornite da altre sedi. Ma questo stesso ‘disordine’, che è proprio della società dell’informazione, agisce come specchio e generatore di una costante revisione dei quadri istituzionali delle conoscenze. La scuola non può assistere inerte a questo fenomeno. Le si potrà chiedere di darsi un assetto culturale all’interno del quale la dimensione disciplinare e quella reticolare (dei saperi trasversali e dei collegamenti fra le diverse aree) costituiscano i poli di un campo di tensioni costruttive, sostenute da un costante impegno di ricerca e di proposizione.”
I due brani su riportati sono tratti dal documento di sintesi della Commissione incaricata dal Ministro Berlinguer di individuare i quadri e le forme di conoscenza irrinunciabili per l’azione formativa del prossimo futuro. Le considerazioni suggerite, che non vanno nella direzione di imporre un nuovo modello epistemologico su quello corrente, ma invitano la scuola a mettersi in gioco, facendo interagire il modello tradizionale con quello nuovo, credo possano esser condivise da tutti quanti si occupano di questioni formative. Accoglierle sarà anche un modo per contestualizzare meglio e più opportunamente discutere le posizioni espresse nel presente intervento.
Intervento che si muove in sintonia con due saggi di recente pubblicazione:
Pierre Lévy, Il virtuale, Milano, Raffaello Cortina, 1997, una sorta di “manuale di epistemologia” che accoglie l’invito a pensare e a ripensarsi sollecitato dall’avvento del digitale;
Sherry Turkle, La vita sullo schermo, Milano, Apogeo, 1997, un confronto con i nuovi criteri di identità e le nuove dinamiche relazionali promosse da Internet.
I materiali della Commissione dei saggi (della quale chi scrive è stato coordinatore) sono pubblicati nel n. 78 della collana “Studi e documenti” degli Annali della Pubblica Istruzione, giugno 1997, che riporta in allegato anche il floppy disk con la versione ipertestuale dei materiali stessi (versione disponibile in rete su numerosi siti, tra i quali quello da me curato: http://www.geocities.com/athens/forum/9897).
Chi intenda confrontarsi con i contesti e gli sviluppi ulteriori del discorso proposto qui può far riferimento al sito indicato precedentemente, nel quale sono documentate le attività del gruppo che fa capo al Laboratorio di Tecnologie Audiovisive del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università Roma Tre.